Il percorso museale rappresenta le caratteristiche essenziali della società e dell’economia della Valle, colte soprattutto attraverso la cultura materiale. Gli oggetti, i documenti, le immagini fotografiche e le testimonianze orali illustrano il lavoro incessante e faticoso che le condizioni strutturali e ambientali hanno imposto agli uomini e alle donne della Val di Scalve al fine di restituire alla popolazione un patrimonio storico e culturale essenziale alla conservazione della sua memoria storica.
Le attività agro-silvo-pastorali erano parti di un unico insieme: si coltivavano il campo, il prato-pascolo e il bosco nell’ottica comune di ottenere tutto il possibile per il sostentamento all’interno dell’economia chiusa della Valle. Nei campi si coltivavano cereali, legumi e patate ma, siccome non riuscivano ad assicurare il sostentamento alimentare, si ricorreva all’allevamento di qualche capo di bestiame che, nel quadro precario dell’economia di sussistenza, rappresentavano una voce essenziale. La terra doveva dar da mangiare anche agli animali, per cui al centro dell’attività agricola c’era la produzione di foraggio e la cura del prato-pascolo. Dalla terra si otteneva anche una preziosa fibra di origine vegetale, il lino, mentre la fibra di origine animale più utilizzata era la lana di pecora; entrambe le fibre venivano lavorate con cura dalle donne per confezionare lenzuola ed indumenti. Anche il bosco era un elemento fondamentale nell’economia familiare; a seconda della tipologia, la legna veniva usata per scopi diversi: dagli utensili, ai mobili, all’edilizia, alla produzione di carbone di legna.
La storia mineraria della Val di Scalve è documentata dall’anno 1047, anno in cui conseguì dall’imperatore Enrico III° il Diploma che confermò i privilegi goduti rispetto all’escavazione e alla lavorazione del ferro. Il ciclo produttivo aveva inizio dall’estrazione dalle gallerie, sviluppate nel gruppo di Schilpario per circa 40 km. In miniera i lavoranti avevano diverse mansioni: i frerì erano le persone che praticavano lo scavo, i purtì erano addetti al trasporto dallo scavo alla bocca della miniera dove i taisadür lo riducevano in parti più piccole prima che gli strüsì lo trasportassero al forno fusorio. Per completare la fusione del minerale di ferro nei forni era indispensabile il lavoro dei carbuner che, preventivamente, avevano provveduto a produrre carbone di legna indispensabile per la colata, prima della produzione finale di manufatti nelle fucine.Il museo raccoglie gli oggetti utilizzati in ciascuna fase, diversi a seconda del periodo storico, e le testimonianze orali grazie alle quali si è potuto ricostruire l’intero ciclo produttivo che si concluse definitivamente nel 1972, anno di chiusura delle miniere, in quanto considerato antieconomico.
La storia dell’emigrazione non è fatta tanto da dati e da numeri, quanto da tante vicende individuali. Nel pannello ad essa dedicato si racconta questo fenomeno attraverso passaporti e documenti di viaggio, fotografie di emigranti, scritture, lettere e memorie inviate ai familiari come prova di buona salute e di buone condizioni di vita, talvolta unite da ritratti e immagini di lavoro. Immagini e documenti non pretendono di illustrare tutta la vicenda dell’emigrazione dagli spazi chiusi della Valle verso altri Paesi dove ci si spinge in cerca di lavoro quali Francia, Svizzera, Belgio, America, Africa, Australia, ma offrono uno spunto di riflessione sulla vastità e sulla complessità di un fenomeno che ha profondamente segnato i destini individuali e collettivi della gente di qui. “Se avessi trovato lavoro qui non mi sarei mosso…ho sempre fatto la valigia per necessità”, ricorda un emigrante. La necessità di provvedere, da lontano, al sostentamento economico della famiglia.